L’artista non vede, guarda, di Sandro Lazier

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The King of Arts
view post Posted on 10/5/2006, 19:39




“L’artista non vede, guarda.” Con questa frase, credo di G. Apollinaire, è possibile chiarire il significato della parola espressionismo. Vedere è facoltà oggettiva dell’uomo, mentre guardare è facoltà soggettiva. Guardare richiede volontà e partecipazione emotiva mentre vedere è atto fisiologico che non dipende dalla volontà.
Storicamente e filosoficamente questi aspetti dell’esperienza umana trovano sviluppo e approfondimento nelle arti visive della seconda metà dell’ottocento. L’impressionismo pittorico trasporta e traduce l’oggettività della visione nell’ambito della luce e del colore, astraendo la forma fino a idealizzarla smaterializzandola. La comprensione del mondo e l’utilità pratica della sua conoscenza non viene contagiata dal sentire personale se non nella dimensione estetica della scelta cromatica e compositiva. La realtà non muta perché sta fuori dell’individuo il quale, della stessa, può elaborare solo una impressione estetizzante. Per gli impressionisti la forma è neutra e non ha sentimento. Principio e ragione possono quindi tranquillamente governare il mondo, mancando del tutto ogni relazione con la realtà viva e con le scelte etiche che governano la vita umana. Assenza che pittori come Cézanne prima e Van Gogh poi portano in luce con estrema razionalità il primo e con drammatica apprensione il secondo.
In entrambe la forma riacquista sostanza, corpo e spazialità. Lo spazio stesso che circonda gli oggetti guadagna una consistenza sconosciuta che ha nella massa e nel colore nuova dignità espressiva. Un cielo di Van Gogh ha corpo e vigoria tali che trasmette significato oltre la natura del proprio essere. La partecipazione diviene necessaria poiché altera il significato della realtà rappresentata e tutta la rappresentazione acquista senso unitario solo attraverso il significato espressivo dell’autore.
Questo è il punto di partenza dell’espressionismo: la forma ha vita, senso e significato solo in dipendenza di una visione unitaria che può essere solo soggettiva.
Se Van Gogh guarda la realtà che lo circonda, Edvard Munch guarda dentro l’uomo e scopre quanto la rappresentazione della realtà sia condizionata dallo stato emotivo, dalla gioia o dall’angoscia, dalla percezione interiore dei significati. Emozioni così importanti da stravolgere la forma della rappresentazione fino alla sua negazione e confusione in segni astratti.
Si arriva così a Wassily Kandinsky, che oltrepassa i limiti del riconoscibile alla ricerca del significato più profondo della realtà intima delle cose. Una realtà che non ha necessità di forme verificabili in quanto elaborata in sintesi unitaria che sola dà significato all’esperienza. Vivere è esperienza complessiva, organica, impossibile da ridurre in parti riconoscibili da smontare e rimontare a piacimento. Le stesse parti, in momenti diversi, hanno significati diversi e il senso del loro coesistere è rappresentabile con un segno che non è somma di pezzi ma sempre sintesi unitaria.
L’architettura ha vissuto poco e malamente il confronto con l’espressionismo. La necessità accademica di poter disporre di elementi sciolti da poter assemblare a piacimento ha posto ostacolo alla visione unitaria del segno personale, sempre mortificato in virtù di una pretesa egemonia del carattere sociale della materia. Una obiezione complice di un sistema dominante che, negli anni della crisi, ha concesso spazio alla volgarità del postmoderno, della decorazione e del bel disegno ma continua a negare il valore dell’unitarietà del segno.
Ma la forza con cui si pone l’architettura contemporanea – penso a Libeskind, a Gerhy in particolare – e l’estrema drammaticità nella quale trova rappresentazione ci danno la certezza che la sensibilità per una visione organica dell’esperienza, del vivere espressivo, hanno ora vinto una battaglia secolare contro la disciplina della forma e quindi della sostanza, contro l’intransigenza della semplificazione e della coerenza storica.
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